mercoledì 17 febbraio 2016

Pubblichiamo questo interessante documento redatto dalle compagne della commissione lavoro donne - Pdac

IL DIBATTITO SULL'UTERO IN AFFITTO

LA NOSTRA POSIZIONE

Commissione Lavoro Donne - Pdac

 

Tra le procedure della scienza moderna tecnicamente avanzate che consentono a coppie sterili di avere figli, c’è la surrogazione di maternità (o “gestazione per altri” o “gestazione d’appoggio”) vale a dire il procedimento per cui una donna mette a disposizione il proprio utero e porta avanti la gravidanza per conto di committenti.
Questa pratica medica che avrebbe funzione risolutiva dell’impossibilità di avere figli, è nota anche come “utero in affitto”, denominazione più prosaica e dunque forse più adeguata nel sistema capitalistico per il quale “tutto diventa merce”, come aveva avvertito Marx già nell'Ottocento.
In Italia è illegale. La legge sulla procreazione medicalmente assistita (L. 19 Febbraio 2004, n. 40, una delle leggi più reazionarie che dispongono della capacità riproduttiva della donna), punisce, all’art. 12, l’attività di organizzazione, realizzazione o pubblicizzazione dell’attività di surrogazione di maternità con la reclusione da dieci a venti anni o la multa fino al non indifferente importo di un milione di euro.
Ed attorno a questa pratica si è aperto un dibattito in Italia che ha diviso il mondo delle femministe prima e l'intero mondo politico e sociale, poi.

C’è chi dice no. C’è che dice sì.
All’inizio di dicembre è uscito su Repubblica un articolo intitolato “Femministe contro la maternità surrogata: non è un diritto”, che presentava un appello del movimento di donne “Se non ora quando-Libere” contro la cosiddetta pratica dell’utero in affitto. Qualche mese prima un manifesto simile era stato firmato da alcune femministe francesi.
Nell’appello italiano si chiedeva la messa al bando della pratica in Europa. “Noi rifiutiamo di considerare la maternità surrogata un atto di libertà o di amore.” – si leggeva nell’appello (1) - “In Italia è vietata, ma nel mondo in cui viviamo l’altrove è qui: committenti italiani possono trovare in altri Paesi una donna che porti un figlio per loro. Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione: non più del patriarcato ma del mercato”. Facendo leva sul concetto di maternità come libera scelta, ritenuta oggi possibile per la donna, l’appello si basava sostanzialmente su un richiamo “morale”. Su analoghe posizioni di avversione alla pratica della surrogazione di maternità e facendo riferimento diretto al suddetto appello, si è schierato tutto il fronte cattolico reazionario che ha dato testimonianza di sé nella difesa della famiglia tradizionale nell’ultimo Family Day.
Le risposte a tali prese di posizione non si sono fatte attendere. Intanto è stato chiesto che dal sottotitolo dell’appello pubblicato da Repubblica e rimbalzato immediatamente in rete, fosse tolta la dicitura “Snoq” (Se non ora quando) (2) poiché le posizioni espresse sarebbero state discusse da un solo comitato e non rappresenterebbero dunque la sintesi del dibattito sviluppatosi nell’intero movimento. In seguito, per tutta risposta, è stato pubblicato un contrappello nel quale, pur precisando di essere contraria alle pratiche mercantili, l’altra metà del femminismo borghese italiano ha espresso un giudizio favorevole alla pratica della surrogazione di maternità. “La solidarietà esiste”: e dunque perché impedire che con un grande atto d’amore gratuito una donna possa volontariamente rispondere al desiderio di maternità di un’altra donna? Impedire questa pratica significherebbe, per questo fronte del sì, limitare l’autodeterminazione delle donne rispetto al proprio corpo, affermare che esse sono incapaci di decidere per se stesse, aprire la strada ad altre misure restrittive nei confronti della sessualità femminile, tanto a lungo repressa e faticosamente liberata. Dunque, come ovvia conseguenza, meglio normare questa pratica piuttosto che impedirla.
L’insana passione per un tema che è normato in Italia dal 2004, nasce oggi dall’attualità di un altro dibattito, quello sulla normativa sulle unioni civili attualmente in discussione in Parlamento, la cui prima firmataria è Monica Cirinnà del Pd. L’istituto della stepchild adoption, previsto dal disegno di legge, grazie al quale diventerebbe possibile l’adozione del figlio naturale del partner, anche nel caso di coppie omosessuali, secondo i settori più omofobi e reazionari nasconderebbe l’avallo dell’utero in affitto per le coppie di uomini, che non hanno altro modo di ottenere un figlio se non quello di usare, dove è consentito, una madre surrogata.

Il quadro mondiale
Innumerevoli i siti d’informazione e i portali delle cliniche che pubblicizzano la pratica dell'utero in affitto come un prodotto perfetto, con un’assistenza completa per tutta la durata del cosiddetto “programma”. Fecondazione in vitro, impianto, parto. (3) Tali siti ovviamente si guardano bene dal pubblicizzare con altrettanta chiarezza i rischi non solo legali ma anche di salute che la realizzazione del “prodotto perfetto” comporta e che arrivano fino alla morte della donna e alla malformazione del feto. Capitolo a parte i costi, che ne fanno un vero business da 12-20mila euro in India, a 40mila in Ucraina, ai 100mila in alcuni degli Stati Uniti d'America.
Sono le agenzie intermediarie a stipulare un vero e proprio contratto con il committente: del compenso pattuito, alla madre va una minima parte (ma anche se alla madre andasse l'intero importo, ciò non renderebbe la questione meno grave). Se durante la gestazione i controlli evidenziano anomalie nel feto, il committente può, per contratto, obbligare la madre surrogata ad abortire senza neppure consultarla e quasi sempre senza poi pagarla. (4) A volte il contratto include anche la possibilità di scegliere il sesso del nascituro. Gli agenti intermediari selezionano accuratamente la madre surrogata: ciò che conta è che sia una ‘portatrice sana’ e che venga ben nutrita e controllata nel suo stato di salute durante i nove mesi di affitto. Tra le varie proposte commerciali c’è anche chi promette la scelta della donatrice d’ovuli tra le candidate disponibili (bionda, occhi azzurri, ecc.): una vera e propria selezione della “razza”, o meglio, ricerca di mercato del “prodotto”, come quando, appunto, si acquista un oggetto. La madre in affitto trascorre la sua gravidanza in residenze protette, per assicurarle una nutrizione adeguata e tenere sotto controllo le condizioni igieniche e sanitarie, le viene impedito di incontrare il proprio marito, per evitare il rischio che contragga malattie sessualmente trasmissibili, in pratica per essere certi che il prezioso prodotto commissionato non si possa avariare o deteriorare! Il bambino viene sottratto subito dopo il parto impedendone l’allattamento alla madre naturale, alla quale non viene neppure detto se è maschio o femmina. Le residenze protette servono anche per impedire alla donna di scappare con il figlio appena partorito per mettere al riparo i vari committenti dal rischio che la ‘donna incubatrice’ abbia ripensamenti. È una vera e propria transazione commerciale, per cui spetta ai clienti porre le condizioni del servizio per il quale pagano (la maternità surrogata) ed ottenere il “prodotto” commissionato (il bambino).
Nel panorama mondiale degli uteri in affitto, l’industria indiana della maternità surrogata è stimata produrre un indotto complessivo enorme, circa due miliardi di dollari, con un migliaio di cliniche, spesso non regolari. Sono di recente denuncia ad opera di organizzazioni per i diritti umani, casi di ragazze comprate in villaggi poveri con l’illusione di un lavoro come domestica, che vengono ridotte in schiavitù nel mercato degli uteri in affitto. (5) Secondo il tariffario (!) pubblicato dal New York Times, una madre surrogata indiana costa in media 25mila euro (dai 10.000 ai 35.000 dollari), una madre americana tre volte di più (tra 59.000 e 80.000 dollari), ma ci sono casi di compensi che sfiorano anche i 150mila euro. A Creta i costi più bassi: un figlio costa in media 12mila euro. Il Guatemala è un mercato emergente: si possono risparmiare più di 10mila dollari. Altro Paese emergente nel mercato globale delle gravidanze conto terzi è la Thailandia. Seguono Ecuador, Bolivia e Haiti. L’Argentina sta valutando l’opportunità di rendere legale la pratica che si sta diffondendo, anche in Europa, soprattutto in Russia e Ucraina, ma anche Polonia e Romania.

La nostra posizione
Come si evince dai dati, le fabbriche di maternità sono prevalentemente nei Paesi poveri e gli acquirenti sono i ricchi. Esiste dunque un mercato riproduttivo globale nel quale, in sostanza, le donne povere, soprattutto orientali, vengono pagate dalle donne ricche per condurre le gravidanze al posto di queste ultime o da single e coppie omosessuali per colmare il desiderio di famiglia tradizionale. L’utero in affitto è insomma una nuova schiavitù per i poveri, un nuovo business e un lusso per ricchi, qualunque sia il loro orientamento sessuale.
Nel coro di voci a favore e contro, non possiamo ancora una volta che distinguerci.
Distinguerci da chi dice sì. A prima vista la surrogazione di maternità può sembrare una pratica emancipativa, una di quelle situazioni in cui la donna sarebbe libera di decidere del proprio corpo. Noi non siamo d’accordo perché un esame più approfondito ne rivela l’aspetto più importante in questo mondo guidato solo dalle leggi del mercato e cioè che a regolare questo passaggio, per cui una donna cede il proprio utero ad altri, è la fredda logica della domanda e dell’offerta, vilmente tradotta nella mercificazione del corpo, della madre e del figlio. Le motivazioni addotte dal fronte del sì per cui in questa pratica si rivelerebbe in tutta la sua compiutezza la possibilità per le donne di autodeterminazione del proprio corpo, rivendicata e parzialmente ottenuta attraverso le lotte degli anni Settanta per l’emancipazione femminile, decadono di fronte alla legge di mercato: qui non si tratta di gestire autonomamente il proprio corpo poiché non può esistere libertà di scegliere in un sistema basato sulla mercificazione dell'essere umano, sullo sfruttamento di classe e su profonde differenze tra Paesi imperialisti e Paesi coloniali e semicoloniali. Molte donne che vivono oggi in Paesi coloniali e semicoloniali, costrette dall’oppressione e dallo sfruttamento globali a vite sotto la soglia di povertà, accettano in cambio di pochi soldi di “solidarizzare” con chi è meno fortunato (per dirla con le femministe borghesi!) in questa ricerca di maternità. Senza contare che la presunta solidarietà di queste donne vittime del sistema, che le relega ai margini della società costringendole a scegliere di farsi tramite della felicità altrui, si infrange miseramente su se stessa se inquadrata nelle reali condizioni materiali in cui queste donne vivono. Le madri in affitto sono le stesse donne che nei loro Paesi non hanno diritto all'aborto, che non possono contare su nessuna politica sociale a sostegno della maternità, che non conoscono o non hanno accesso ai metodi contraccettivi, che sono vittime nella quotidianità di violenze domestiche e sociali, come per esempio il mancato controllo sullo sfruttamento della prostituzione.
Queste condizioni pesano su tutte le donne proletarie, anche quelle dei cosiddetti Paesi sviluppati, in realtà avvolti nella crisi decennale in cui si dibatte il capitalismo globale. In nessun caso si può parlare di una scelta volontaria! Sempre, di costrizione per necessità economica.
Ci distinguiamo anche da chi dice no perché il nostro è un NO differente. Non si origina da questioni di morale piccolo borghese o da sentimentalismi romantici, né tantomeno dalla necessità di tutelare la famiglia tradizionale. Il capitalismo ha bisogno della famiglia per perpetuare il meccanismo di trasmissione della ricchezza e del patrimonio: senza la famiglia tradizionale, in cui si riproduce il meccanismo di successione, non potrebbe esistere il capitalismo. E' solo per questo che il sistema enfatizza il ruolo di madri delle donne e ampi settori della borghesia, in Italia, si ergono a difensori della famiglia, ignorando intenzionalmente il fatto che, proprio nella famiglia, si perpetua l'oppressione della donna, tanto più nelle fasi di crisi economica come quella che stiamo vivendo. Come dimostra l'aumento della violenza domestica, le donne sono sempre meno indipendenti economicamente e, quindi, sempre più costrette a subire violenze maschiliste tra le mura domestiche. Lo stesso “desiderio” di maternità, così come ci viene imposto dalla società, che spinge fino all’aberrazione della compravendita di una maternità surrogata, non ha nulla di romantico: è spesso indotto dalle esigenze del sistema che ha necessità di mantenere un ordine, un equilibrio tra le classi per continuare lo sfruttamento e l’oppressione di una classe su un’altra. “Il borghese vede nella moglie uno strumento di produzione” (come scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto del Partito comunista), e se tale strumento non funziona, occorre sostituirlo, qualunque sia l’alternativa. Diversamente, se la reale preoccupazione fosse per la donna e per il bambino, di qualunque classe sociale, sarebbero altre le strade da percorrere per la salvaguardia della vita dignitosa di entrambi: servizi gratuiti, facilmente accessibili che sostengano la donna e i bambini in ogni aspetto della vita. Ma sono strade troppo costose per il povero capitale e che minerebbero quell’ordine tra le classi.
Il nostro NO nasce prima di tutto contro lo sfruttamento e l’oppressione perché non è accettabile che una donna venda il proprio corpo per accontentare i “desideri” di ricche/i borghesi, siano questi desideri sessuali o di maternità. Il nostro NO nasce contro il mercimonio di ogni cosa, persone incluse, che questa società consente, stabilendo cosa e quanto possa diventare merce, cosa e quanto si possa comprare per mantenere in vita un sistema agonizzante.
Nel sistema capitalistico, strutturalmente basato sulla disuguaglianza e sullo sfruttamento, l'autodeterminazione del proprio corpo rischia, in ogni momento, di tramutarsi nell'esatto opposto, cioè in mercificazione del proprio corpo. Noi ci battiamo per una società diversa, socialista, liberata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e, quindi, dal connesso bisogno di trasmettere il patrimonio ai figli attraverso la famiglia: una società di uomini e donne veramente liberi e uguali, senza differenze di classe e dove le donne abbiano piena indipendenza economica e sociale. Pensiamo che solo in una società di questo tipo le donne, gli omosessuali e gli eterosessuali, in coppia o single, avranno la reale possibilità di disporre liberamente dei propri corpi e di scegliere se e come essere madri e padri. Difendere l'autodeterminazione delle donne e i diritti del mondo lgbtq significa quindi prima di tutto lottare per abbattere il capitalismo.

Nessun commento:

Posta un commento

Cara lettrice, caro lettore,

abbiamo deciso di porre alcuna restrizione ai commenti: chiunque può commentare come meglio ritiene, anche in forma anonima, i post di CUBlog. Tuttavia apprezziamo sia la buona educazione (anche nel dissenso più aspro) sia la vostra firma.

La Redazione di CUBlog