La
legge delega sul lavoro è passata alla Camera e così il governo Renzi potrà
riscrivere l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A dare il loro voto
favorevole, molti politici venuti dal sindacato: dall'ex segretario della Cgil
al ex Fiom ed ex responsabile lavoro dei Dem. E inoltre Bersani, Bellanova ed
ex vendoliani come Boccadutri
DI
LUCA SAPPINO ( L’ESPRESSO )
26
novembre 2014
Sindacalisti,
operai, precari, ex comunisti. Nonostante le piazze convocate dalla Cgil, i
cortei della Fiom e dei precari, molti rappresentanti dei lavoratori eletti
alla Camera hanno votato a favore della legge delega sul lavoro, con cui si
riforma l’art. 18.
Una delega
molto generica che, approvata insieme al Nuovo centro destra di Maurizio
Sacconi, dopo che sarà votata anche dal Senato, assegna al governo il compito
di riformare il mercato del lavoro: non c’è il contratto unico ma un contratto
che con un meccanismo di incentivi dovrebbe essere «prevalente», il contratto a
tutele crescenti.
Per gli
altri contratti, quelli più precari, è promessa una riorganizzazione, ma non ci
sono dettagli. Il governo dovrà poi adeguare la normativa sul controllo a
distanza e sul demansionamento. Ma soprattutto il
governo dovrà riscrivere l’art 18 dello statuto dei lavoratori: lì
resterà il diritto al reintegro solo per i licenziamenti nulli in quanto
discriminatori, e per alcuni casi di licenziamento disciplinare, dichiarato
illegittimo da un giudice.
CAMERA
Come hanno votato i deputati
Non ci sarà
diritto al reintegro in caso di licenziamento per ragioni economiche rivelatesi
infondate, ad esempio, e il governo vorrebbe comunque, con un sistema di
incentivi, evitare il più possibile proprio la via giudiziaria, convincendo il
lavoratore ad accordarsi con il datore di lavoro. Di contro nelle intenzioni
c’è un allargamento degli ammortizzatori sociali e della maternità, ma chi ha
votato contro, come il dem Stefano Fassina, fa notare come «nella legge di
stabilità per il 2015 le risorse per questi annunciati ammortizzatori sono meno
di quelle previste nel 2014 per la sola della cassa in deroga».
Ma veniamo ai voti e ai nomi che più rappresentano, oltre
le battute del premier, la rottura del Pd con il mondo
sindacale e le contraddizioni di un rapporto profondissimo. Quello col
passato più ingombrante è Guglielmo Epifani: per
lui luce verde, favorevole. Vice di Sergio Cofferati ai
tempi della battaglia dura in difesa dell’art. 18 è stato a sua volta segretario generale della Cgil dal 2002 al 2010. Il
suo voto non poteva passare inosservato. E infatti a Epifani è dedicato
l’attacco di un altro sindacalista eletto in parlamento, ma con Sel e
proveniente dalla Fiom: Giorgio Airaudo. «Non posso non chiedere al mio ex
segretario Epifani» ha detto Airaudo nella sua dichiarazione di voto, «se pensa
di essersi sbagliato quando era sul palco con Sergio Cofferati e la Cgil, a
difendere l’art. 18, o se si sta sbagliando adesso che vota per cancellarlo».
Dei big ha
votato sì Pier Luigi Bersani, che pure nel suo programma elettorale, da
candidato premier del centrosinistra, non aveva mai accennato a questa riforma.
Rosy Bindi è invece uscita, così come Gianni Cuperlo (Giuseppe Civati invece ha
votato contro). Enrico Letta come ormai consuetudine si è tenuto alla larga da
Montecitorio e dal dibattito. Dei ministri hanno votato sì Paolo Gentiloni,
Marianna Madia, Maria Elena Boschi e Andrea Orlando. Dario Franceschini era in
missione, così come Angelino Alfano, Beatrice Lorenzin e Maurizio Lupi.
Ruolo di
prima fila anche per Cesare Damiano, favorevole.
Lui ha scalato la Cgil nazionale partendo dalla Fiom,
come rappresentante degli impiegati e poi dei lavoratori delle officine di
Mirafiori. Quando Cofferati riempiva il Circo Massimo, lui era responsabile
Lavoro dei Democratici di Sinistra: in piazza assicurava, «gli obiettivi sui
quali si mobilita il sindacato sono condivisi». Nel secondo governo Prodi, dal
2006 al 2008, è stato ministro del Lavoro. In questi giorni, da presidente
della commissione lavoro della Camera, ha gestito la mediazione con il governo
e con gli alleati della maggioranza. A lui sono andati i complimenti di Stefano
Fassina «non formali», sì, ma più sul metodo, «per aver permesso al parlamento
di fare il proprio lavoro, cosa non scontata», che sul merito: «Il testo del
Senato è stato migliorato ma rimangono valutazioni negative su punti decisivi»
ha detto Fassina prima di abbandonare l’aula, «il propagandato contratto unico
non c'è e nemmeno il disboscamento dei contratti precari».
Anche la sottosegretaria Teresa Bellanova ha votato sì, e la
sua carriera è cominciata ventenne nel sindacato dei braccianti: «Sono convinta
che il testo approvato è l'esito di un lavoro importante e di un punto alto di
mediazione» ha detto, «già soltanto sfoltire l'enorme fattispecie contrattuale
e rendere poco interessante per l'impresa il lavoro precario mi sembrano
elementi enormemente significativi».
Sempre
dalla Cgil viene Luisella Albanella, alla sua prima legislatura, eletta con i voti dei
lavoratori siciliani. Favorevole, anche se ovviamente si dice «preoccupata per
la contrapposizione in atto tra il mio vecchio sindacato e il mio nuovo
partito». Patrizia Maestri, prima donna segretaria
della Cgil di Parma, ha cominciato come delegata Cgil della Upim-Rinascente,
nel 1983, poi ha organizzato le donne del sindacato, dopo un po’ è arrivata in
parlamento. Favorevole. Come Cinzia Maria Fontana,
del resto, sindacalista di Crema. Prima di votare Fontana si è così
rassicurata: «Fortunatamente la linea di Sacconi non è quella del Pd». Non lo è
anche perché lei l’aveva detto: «se finisse per prevalere quella non la
voterei». Dalla guida dello Spi-Gcil della Liguria al parlamento è finita anche
Anna Giacobbe, favorevole anche lei.
Prima della
mediazione sui licenziamenti discriminatori si era inalberata col premier: «La
posizione di Renzi sui licenziamenti ingiustificati è sbagliata. La Cgil
reagisce come ci si aspetta che faccia». Il romano Marco Miccoli, prima di
esser segretario cittadino del Partito, con la segreteria di Bersani, operaio
tipografico e grande organizzatore delle Feste dell’Unità, è stato nella
segreteria nazionale della Cgil comunicazione. Favorevole anche lui, come tutti
i bersaniani sulla linea del capogruppo Roberto Speranza.
Simile
carrellata si potrebbe fare sul Senato, dove la legge dovrà ora tornare, ma
dove è stata già votata una volta, quando, a detta dei democratici, «andava
ancora migliorata». A far storcere il naso ai sindacalisti e operaisti fuori da
Palazzo Madama, ad esempio, ci sono stati i voti di Valeria Fedeli e Mario
Tronti, il teorico dell’operaismo. Fedeli, ex sindacalista della Cgil, finita
nel polverone per aver partecipato all’ultima Leopolda di Matteo Renzi, ha
votato sì preferendosi concentrare «sull’importanza che, nella delega, viene
data al contratto a tempo indeterminato», quello a tutele crescenti.
Un ex
sindacalista, eletto nel Pd, che non ha partecipato al voto della Camera è
Giuseppe Zampulla, ex Fiom, uscito dall’aula con Stefano Fassina e Gianni
Cuperlo. Lo stessa ha fatto Anna Maria Parente, ex Cisl, e Monica Gregori,
deputata laziale del Partito Democratico, con 13 anni di militanza in Cgil.
Gregori è stata però protagonista di un licenziamento, recentemente: già eletta
in parlamento, in aspettativa, è stata messa alla porta con 17 colleghi,
dipendenti di una casa di riposto della provincia romana. Forse ha influito.
Con la minoranza bersaniana del Pd che aiuta Matteo Renzi, poi, il gioco è
facile per gli ex sindacalisti eletti nel centrodestra. La forzista Renata
Polverini, già segretaria generale dell’Ugl, prima di diventare governatrice
della regione Lazio, ha abbandonato l’aula, con tutto il gruppo di Forza
Italia, che, come tutte le opposizioni, ha preferito far votare da sola la
maggioranza.
Sindacalista
ma soprattutto operaio è Antonio Boccuzzi. Anche lui ha premuto il tasto verde, lo stesso di Fabrizio
Cicchitto. Boccuzzi è in parlamento perché simbolo della tragedia dello
stabilimento ThyssenKrupp di Torino. Superstite, fu candidato e eletto una
prima e poi una seconda volta nel 2013. In azienda era il delegato sindacale
della Uil. In parlamento aveva già votato la riforma di Elsa Fornero: «Per me
votare quei provvedimenti è stata una sofferenza enorme», si è però
giustificato. Hanno votato sì anche i volti della giovanile del partito, finiti
in parlamento nel 2013: Fausto Raciti, Giuditta Pini, Valentina Paris.
Notevoli
sono anche i voti degli ex Sel. Favorevole hanno votato Sergio Boccadutri, ex
tesoriere dei vendoliani, Ileana Piazzano, Nazzareno Pilozzi e Gennaro
Migliore, che appena uscito da Sel è stato il primo a prendere la tessera del
Pd. Ai tempi di Rifondazione Comunista Migliore era un bertinottiano,
capogruppo alla Camera dei deputati. Bertinotti, ex sindacalista, dedicò la sua
elezione a presidente della Camera «agli operai e alle operaie». Favorevole
anche Titti Di Salvo che oltre alla militanza politica nel partito di Nichi
Vendola, è stata una massima dirigente sindacale, dalla base di Torino fino
alla segreteria nazionale nel 2002, negli anni della grande opposizione al
governo Berlusconi sull’art. 18. Ha invece votato contro alla delega del
governo Claudio Fava, ex Ds, fuoriuscito da Sel ma non entrato nel Pd.
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