lunedì 30 novembre 2015

Caso scuola di Rozzano: la lettera del dirigente scolastico MARCO PARMA

NOHAM CHOMSKY – Ecco a Voi 10 modi per capire come ci prendono in giro

NOHAM CHOMSKY PADRE DELLA CREATIVITA’ DEL LINGUAGGIO, definito dal New York Times “il più grande intellettuale vivente”, spiega attraverso dieci regole come sia possibile mistificare la realtà. La necessaria premessa è che i più grandi mezzi di comunicazione sono nelle mani dei grandi potentati economico-finanziari, interessati a filtrare solo determinati messaggi.


Di Pjmanc – ilfattaccio.org


1) La strategia della distrazione, fondamentale, per le grandi lobby di potere, al fine di mantenere l’attenzione del pubblico concentrata su argomenti poco importanti, così da portare il comune cittadino ad interessarsi a fatti in realtà insignificanti. Per esempio, l’esasperata concentrazione su alcuni fatti di cronaca (Bruno Vespa é un maestro).

2) Il principio del problema-soluzione-problema: si inventa a tavolino un problema, per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Un esempio? Mettere in ansia la popolazione dando risalto all’esistenza di epidemie, come la febbre aviaria creando ingiustificato allarmismo, con l’obiettivo di vendere farmaci che altrimenti resterebbero inutilizzati.

3) La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni 80 e 90: stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.

4) La strategia del differimento. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, al momento, per un’applicazione futura. Parlare continuamente dello spread per far accettare le “necessarie” misure di austerità come se non esistesse una politica economica diversa.

5) Rivolgersi al pubblico come se si parlasse ad un bambino. Più si cerca di ingannare lo spettatore, più si tende ad usare un tono infantile. Per esempio, diversi programmi delle trasmissioni generaliste. Il motivo? Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni, in base alla suggestionabilità, lei tenderà ad una risposta probabilmente sprovvista di senso critico, come un bambino di 12 anni appunto.

6) Puntare sull’aspetto emotivo molto più che sulla riflessione. L’emozione, infatti, spesso manda in tilt la parte razionale dell’individuo, rendendolo più facilmente influenzabile.

7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità. Pochi, per esempio, conoscono cosa sia il gruppo di Bilderberg e la Commissione Trilaterale. E molti continueranno ad ignorarlo, a meno che non si rivolgano direttamente ad Internet.

8) Imporre modelli di comportamento. Controllare individui omologati é molto più facile che gestire individui pensanti. I modelli imposti dalla pubblicità sono funzionali a questo progetto.

9) L’autocolpevolizzazione. Si tende, in pratica, a far credere all’individuo che egli stesso sia l’unica causa dei propri insuccessi e della propria disgrazia. Così invece di suscitare la ribellione contro un sistema economico che l’ha ridotto ai margini, l’individuo si sottostima, si svaluta e addirittura, si autoflagella. I giovani, per esempio, che non trovano lavoro sono stati definiti di volta in volta, “sfigati”, choosy”, bamboccioni”. In pratica, é colpa loro se non trovano lavoro, non del sistema.

10) I media puntano a conoscere gli individui (mediante sondaggi, studi comportamentali, operazioni di feed back scientificamente programmate senza che l’utente-lettore-spettatore ne sappia nulla) più di quanto essi stessi si conoscano, e questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un gran potere sul pubblico, maggiore di quello che lo stesso cittadino esercita su sé stesso.
Si tratta di un decalogo molto utile. Io suggerirei di tenerlo bene a mente, soprattutto in periodi difficili come questi.

Di Pjmanc – ilfattaccio.org

La Nostra Solidarietà agli attivisti denunciati.

La lotta non si arresta!
Il coordinamento No Austerity esprime la piena solidarietà ai denunciati per l'occupazione della stazione di San Pietro Vernotico avvenuta il 10 novembre scorso.
L’intimidazione operata dalla Questura di Brindisi contro chi lotta da mesi contro il Piano Siletti ha come obiettivo ultimo la distruzione delle coltivazioni secolari salentine.
Il pretesto non velato ma chiaro a tutti noi, quello della "xylella", punta chiaramente alla divisione del movimento tra attivisti "buoni" e attivisti "cattivi", nell’intendo di dividere una lotta che ha l’orgoglio di difendere il nostro patrimonio culturale sociale ed economico.

Una lotta sviluppatasi ormai da mesi e che coinvolge trasversalmente il movimento a difesa del nostro patrimonio.
Noi riteniamo che dietro alla vicenda xylella si annidano grossi interessi economici che puntano a creare una forma diffusa di desertificazione attraverso lo sradicamento forzato di migliaia di alberi sani, cosa che sta creando la giusta sollevazione popolare di centinaia di coltivatori salentini e di quella parte sana dello stesso popolo salentino.
Il Piano Siletti della Ue impone lo sradicamento non solo degli alberi malati, ma anche di quelli sani, all'interno di un perimetro di 100 mq, e il divieto di impianto di nuove colture di uliveti nei terreni interessati.

E’ offensiva la quota devoluta per l’abbattimento di un albero d’ulivo.
E’ un’elemosina che il commissario Siletti propone ai coltivatori che per ogni albero abbattuto la quota sia di 250 euro.
La proposta deve essere rispedita al mittente come giustamente viene rifiutata da tutti i coltivatori.
Pertanto la nostra piena solidarietà va a tutti gli attivisti denunciati e alla lotta del popolo salentino contro la scelta che il Piano Siletti ha intenzione di portare a termine.
Il Piano Siletti va respinto come vanno respinti gli interessi capitalistici internazionali che oggi in agricoltura vedono opporsi i salentini a difesa dei suoi uliveti centenari e la cultura che questo bene rappresenta per le vecchie e le nuove generazioni.

                          W la lotta del Salento!

Solidarietà ai compagni e alle compagne che lottano!

NO AUSTERITY

domenica 29 novembre 2015

Commercio, meno diritti sindacali. Camusso ci mette la firma

di Checchino Antonini, da Popoff

Anche il settore terziario ha le sue nuove regole sulla rappresentanza sindacale. Ovvero Cgil, Cisl e Uil hanno firmato anche per questo comparto l’accordo famigerato del 10 gennaio sulle regole che sovraintenderanno alle trattative contrattuali. «Ancora un accordo negativo, uno schiaffo alla democrazia – commenta a caldo Nando Simeone, portavoce nazionale de Il sindacato è un’altra cosa- Opposizione in Filcams Cgil – Ancora più grave, visto il clima generale di restringimento delle libertà democratiche che stiamo subendo nella società e adesso anche nei posti di lavoro. Da una parte il governo con la sua controriforma costituzionale, restringe drasticamente gli spazi di democrazia sul terreno della rappresentanza politica, dall’altra le parti sociali, CGIL, CISL e UIL prima con Confindustria adesso con Confcommercio estendono l’accordo del 10 gennaio anche nel commercio in cui si limitano le libertà democratiche. Una per tutte, se verranno firmati accordi nazionali o aziendali una minoranza di lavoratori anche consistente non avrà il diritto di organizzare il dissenso attraverso lotte, scioperi, manifestazioni, presidi. Resta l’amaro in bocca sul fatto che la Cgil e la Filcams, anzichè lottare per difendere salario e diritti si rendono complici di una politica di restringimento delle libertà democratiche e costituzionali».

L’accordo, che la Cgil firmò senza mandato e imponendolo dall’alto ai suoi iscritti così come sta facendo la Filcams, introduce nuove norme sulle forme di accesso ai tavoli negoziali, che non si limitano più – come era previsto – alla percentuale del 5% ma che vincolano le singole sigle alla partecipazione nella preparazione della piattaforma e all’essere firmatarie del Contratto Nazionale precedente. Viene inoltre definito un meccanismo sanzionatorio, “clausole di esigibilità” che fino ad allora il sindacato aveva sempre respinto. Nel testo del 10 gennaio ’14 viene esplicitamente concordato un sistema sanzionatorio, indicando anche quali possono essere le sanzioni per quanto riguarda le organizzazioni sindacali e i delegati nell’esercizio dell’attività sindacale, a fronte del non rispetto delle clausole che lì vengono definite. Questo aspetto viene inserito anche nell’accordo del 28 giugno 2011 – quello riguardante la contrattazione aziendale, dove si considerano validi ed esigibili gli accordi stipulati a maggioranza dalle RSU, senza prevedere la consultazione, il voto dei lavoratori – si aggiunge nel recente accordo che “definiscono clausole di tregua sindacale e sanzionatorie”. A fronte di problemi tra le categorie, inoltre, nel rispettare le regole che sono state lì definite, scatta obbligatoriamente l’arbitrato di un’apposita Commissione, composta da Confederazioni, Confindustria e un terzo soggetto autorevole, da scegliere tra una rosa di nomi. L’adesione a questo impianto costituisce il vincolo per l’accesso ai diritti sindacali e alla partecipazione delle trattative: è dunque una riduzione della libertà sindacale, un accordo neo-corporativo, dove alcune organizzazioni si auto-tutelano di fronte alla crisi di tutte le forme di rappresentanza sociale.

A quattro anni dalla firma della prima intesa con Confindustria, anche Confcommercio, così, ha siglato l’accordo interconfederale con Cgil, Cisl e Uil. Ecco le dichiarazioni dei protagonisti: alla luce di quanto letto sopra le potreste trovare mistificanti. «Questa intesa sta a significare che le parti sociali sono vive e attive e lo sono ancor di più in un tempo in cui la cultura della disintermediazione tende a sminuire il valore dei corpi sociali – esulta il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. Ed è proprio questo, per sindacati e imprese il ‘valore aggiunto’ dell’accordo: dimostrare al governo che sindacati e imprese sanno «garantire certezza sui contratti, assumersi responsabilità di negoziare e sottoscrivere accordi, continuare a ricercare soluzioni innovative in un mondo che cambia sempre più in fretta», come spiega ancora Sangalli ma che trova d’accordo anche i sindacati. A cominciare dalla Cgil. «Siamo consapevoli di andare controcorrente: questa è una stagione in cui si racconta che non c’è bisogno di rappresentanza e che il governo non ha bisogno del confronto con le parti sociali. Ma il negarlo dà solo spazio ad una autoreferenzialità di ogni tipo che fa parte di un mondo antico», ironizza il leader Susanna Camusso che rivendica a maggior ragione l’importanza dell’azione sindacale. E incalza: «Abbiamo concluso con grande positività quest’accordo importante che dice, a chi minaccia che se i sindacati non sanno fare faranno loro, che i sindacati invece sanno fare e in misura maggiore della loro capacità di intervento con cui invece riducono i diritti».
Dal sito: ANTICAPITALISTA.ORG

http://anticapitalista.org/2015/11/29/commercio-meno-diritti-sindacali-camusso-ci-mette-la-firma/

venerdì 27 novembre 2015

Da Epifani a Damiano, gli ex sindacalisti hanno detto sì al Jobs Act

La legge delega sul lavoro è passata alla Camera e così il governo Renzi potrà riscrivere l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A dare il loro voto favorevole, molti politici venuti dal sindacato: dall'ex segretario della Cgil al ex Fiom ed ex responsabile lavoro dei Dem. E inoltre Bersani, Bellanova ed ex vendoliani come Boccadutri

DI LUCA SAPPINO ( L’ESPRESSO )

26 novembre 2014
Sindacalisti, operai, precari, ex comunisti. Nonostante le piazze convocate dalla Cgil, i cortei della Fiom e dei precari, molti rappresentanti dei lavoratori eletti alla Camera hanno votato a favore della legge delega sul lavoro, con cui si riforma l’art. 18.

Una delega molto generica che, approvata insieme al Nuovo centro destra di Maurizio Sacconi, dopo che sarà votata anche dal Senato, assegna al governo il compito di riformare il mercato del lavoro: non c’è il contratto unico ma un contratto che con un meccanismo di incentivi dovrebbe essere «prevalente», il contratto a tutele crescenti.

Per gli altri contratti, quelli più precari, è promessa una riorganizzazione, ma non ci sono dettagli. Il governo dovrà poi adeguare la normativa sul controllo a distanza e sul demansionamento. Ma soprattutto il governo dovrà riscrivere l’art 18 dello statuto dei lavoratori: lì resterà il diritto al reintegro solo per i licenziamenti nulli in quanto discriminatori, e per alcuni casi di licenziamento disciplinare, dichiarato illegittimo da un giudice.


CAMERA Come hanno votato i deputati

Non ci sarà diritto al reintegro in caso di licenziamento per ragioni economiche rivelatesi infondate, ad esempio, e il governo vorrebbe comunque, con un sistema di incentivi, evitare il più possibile proprio la via giudiziaria, convincendo il lavoratore ad accordarsi con il datore di lavoro. Di contro nelle intenzioni c’è un allargamento degli ammortizzatori sociali e della maternità, ma chi ha votato contro, come il dem Stefano Fassina, fa notare come «nella legge di stabilità per il 2015 le risorse per questi annunciati ammortizzatori sono meno di quelle previste nel 2014 per la sola della cassa in deroga».

Ma veniamo ai voti e ai nomi che più rappresentano, oltre le battute del premier, la rottura del Pd con il mondo sindacale e le contraddizioni di un rapporto profondissimo. Quello col passato più ingombrante è Guglielmo Epifani: per lui luce verde, favorevole. Vice di Sergio Cofferati ai tempi della battaglia dura in difesa dell’art. 18 è stato a sua volta segretario generale della Cgil dal 2002 al 2010. Il suo voto non poteva passare inosservato. E infatti a Epifani è dedicato l’attacco di un altro sindacalista eletto in parlamento, ma con Sel e proveniente dalla Fiom: Giorgio Airaudo. «Non posso non chiedere al mio ex segretario Epifani» ha detto Airaudo nella sua dichiarazione di voto, «se pensa di essersi sbagliato quando era sul palco con Sergio Cofferati e la Cgil, a difendere l’art. 18, o se si sta sbagliando adesso che vota per cancellarlo».

Dei big ha votato sì Pier Luigi Bersani, che pure nel suo programma elettorale, da candidato premier del centrosinistra, non aveva mai accennato a questa riforma. Rosy Bindi è invece uscita, così come Gianni Cuperlo (Giuseppe Civati invece ha votato contro). Enrico Letta come ormai consuetudine si è tenuto alla larga da Montecitorio e dal dibattito. Dei ministri hanno votato sì Paolo Gentiloni, Marianna Madia, Maria Elena Boschi e Andrea Orlando. Dario Franceschini era in missione, così come Angelino Alfano, Beatrice Lorenzin e Maurizio Lupi.

Ruolo di prima fila anche per Cesare Damiano, favorevole. Lui ha scalato la Cgil nazionale partendo dalla Fiom, come rappresentante degli impiegati e poi dei lavoratori delle officine di Mirafiori. Quando Cofferati riempiva il Circo Massimo, lui era responsabile Lavoro dei Democratici di Sinistra: in piazza assicurava, «gli obiettivi sui quali si mobilita il sindacato sono condivisi». Nel secondo governo Prodi, dal 2006 al 2008, è stato ministro del Lavoro. In questi giorni, da presidente della commissione lavoro della Camera, ha gestito la mediazione con il governo e con gli alleati della maggioranza. A lui sono andati i complimenti di Stefano Fassina «non formali», sì, ma più sul metodo, «per aver permesso al parlamento di fare il proprio lavoro, cosa non scontata», che sul merito: «Il testo del Senato è stato migliorato ma rimangono valutazioni negative su punti decisivi» ha detto Fassina prima di abbandonare l’aula, «il propagandato contratto unico non c'è e nemmeno il disboscamento dei contratti precari».

Anche la sottosegretaria Teresa Bellanova ha votato sì, e la sua carriera è cominciata ventenne nel sindacato dei braccianti: «Sono convinta che il testo approvato è l'esito di un lavoro importante e di un punto alto di mediazione» ha detto, «già soltanto sfoltire l'enorme fattispecie contrattuale e rendere poco interessante per l'impresa il lavoro precario mi sembrano elementi enormemente significativi».

Sempre dalla Cgil viene Luisella Albanella, alla sua prima legislatura, eletta con i voti dei lavoratori siciliani. Favorevole, anche se ovviamente si dice «preoccupata per la contrapposizione in atto tra il mio vecchio sindacato e il mio nuovo partito». Patrizia Maestri, prima donna segretaria della Cgil di Parma, ha cominciato come delegata Cgil della Upim-Rinascente, nel 1983, poi ha organizzato le donne del sindacato, dopo un po’ è arrivata in parlamento. Favorevole. Come Cinzia Maria Fontana, del resto, sindacalista di Crema. Prima di votare Fontana si è così rassicurata: «Fortunatamente la linea di Sacconi non è quella del Pd». Non lo è anche perché lei l’aveva detto: «se finisse per prevalere quella non la voterei». Dalla guida dello Spi-Gcil della Liguria al parlamento è finita anche Anna Giacobbe, favorevole anche lei.

Prima della mediazione sui licenziamenti discriminatori si era inalberata col premier: «La posizione di Renzi sui licenziamenti ingiustificati è sbagliata. La Cgil reagisce come ci si aspetta che faccia». Il romano Marco Miccoli, prima di esser segretario cittadino del Partito, con la segreteria di Bersani, operaio tipografico e grande organizzatore delle Feste dell’Unità, è stato nella segreteria nazionale della Cgil comunicazione. Favorevole anche lui, come tutti i bersaniani sulla linea del capogruppo Roberto Speranza.

Simile carrellata si potrebbe fare sul Senato, dove la legge dovrà ora tornare, ma dove è stata già votata una volta, quando, a detta dei democratici, «andava ancora migliorata». A far storcere il naso ai sindacalisti e operaisti fuori da Palazzo Madama, ad esempio, ci sono stati i voti di Valeria Fedeli e Mario Tronti, il teorico dell’operaismo. Fedeli, ex sindacalista della Cgil, finita nel polverone per aver partecipato all’ultima Leopolda di Matteo Renzi, ha votato sì preferendosi concentrare «sull’importanza che, nella delega, viene data al contratto a tempo indeterminato», quello a tutele crescenti.

Un ex sindacalista, eletto nel Pd, che non ha partecipato al voto della Camera è Giuseppe Zampulla, ex Fiom, uscito dall’aula con Stefano Fassina e Gianni Cuperlo. Lo stessa ha fatto Anna Maria Parente, ex Cisl, e Monica Gregori, deputata laziale del Partito Democratico, con 13 anni di militanza in Cgil. Gregori è stata però protagonista di un licenziamento, recentemente: già eletta in parlamento, in aspettativa, è stata messa alla porta con 17 colleghi, dipendenti di una casa di riposto della provincia romana. Forse ha influito. Con la minoranza bersaniana del Pd che aiuta Matteo Renzi, poi, il gioco è facile per gli ex sindacalisti eletti nel centrodestra. La forzista Renata Polverini, già segretaria generale dell’Ugl, prima di diventare governatrice della regione Lazio, ha abbandonato l’aula, con tutto il gruppo di Forza Italia, che, come tutte le opposizioni, ha preferito far votare da sola la maggioranza.

Sindacalista ma soprattutto operaio è Antonio Boccuzzi. Anche lui ha premuto il tasto verde, lo stesso di Fabrizio Cicchitto. Boccuzzi è in parlamento perché simbolo della tragedia dello stabilimento ThyssenKrupp di Torino. Superstite, fu candidato e eletto una prima e poi una seconda volta nel 2013. In azienda era il delegato sindacale della Uil. In parlamento aveva già votato la riforma di Elsa Fornero: «Per me votare quei provvedimenti è stata una sofferenza enorme», si è però giustificato. Hanno votato sì anche i volti della giovanile del partito, finiti in parlamento nel 2013: Fausto Raciti, Giuditta Pini, Valentina Paris.

Notevoli sono anche i voti degli ex Sel. Favorevole hanno votato Sergio Boccadutri, ex tesoriere dei vendoliani, Ileana Piazzano, Nazzareno Pilozzi e Gennaro Migliore, che appena uscito da Sel è stato il primo a prendere la tessera del Pd. Ai tempi di Rifondazione Comunista Migliore era un bertinottiano, capogruppo alla Camera dei deputati. Bertinotti, ex sindacalista, dedicò la sua elezione a presidente della Camera «agli operai e alle operaie». Favorevole anche Titti Di Salvo che oltre alla militanza politica nel partito di Nichi Vendola, è stata una massima dirigente sindacale, dalla base di Torino fino alla segreteria nazionale nel 2002, negli anni della grande opposizione al governo Berlusconi sull’art. 18. Ha invece votato contro alla delega del governo Claudio Fava, ex Ds, fuoriuscito da Sel ma non entrato nel Pd.

giovedì 26 novembre 2015

Comunicato ANSA - Parigi: Cub, NO PAURA, il 7/12 protestiamo davanti a Scala

Pubblicato: Martedì, 24 Novembre 2015 21:37

(ANSA) - MILANO, 19 NOV - "Non abbiamo paura": Pippo Fiorito,sindacalista della Cub, così conferma che il sindacato sarà a protestare in piazza Scala a Sant'Ambrogio, come ogni anno.

 

   "Abbiamo già comunicato alla questura la richiesta dello spazio - ha spiegato - e stiamo lavorando su quello che faremo il 7 dicembre. Richiameremo i 'nostri' morti per l'amianto", quelli della Scala (su cui la Procura ha aperto un'inchiesta con 11 indagati fra cui 4 ex sindaci) e anche di altre aziende.

   "Si tratta di attenzione alla salute dei lavoratori in teatro e nelle fabbriche - ha concluso il sindacalista - e su queste cose non c'è Isis che ci possa distogliere".

2015-11-19   (ANSA).

domenica 22 novembre 2015

Roche cede il sito produttivo di Segrate. ALLCA CUB: TUTELARE OCCUPAZIONE E DIRITTI !

Nei giorni 12 e 13 novembre la direzione aziendale Roche ha comunicato ai dipendenti la decisione di vendere a terzi alcuni dei siti produttivi di fabbricazione di piccole molecole (farmaci galenici maturi), tra cui lo stabilimento di Segrate, insieme ai siti in Irlanda, Spagna e Stati Uniti.
Roche conferma il suo interesse a farmaci biotecnologici per terapie mirate e prodotte in volumi minori.
Roche presente in Italia a Milano dal 1897 e da circa di 17 anni a Segrate con il sito produttivo ha deciso di lasciare l’Italia come attività produttive.
I galenici saranno prodotti solo in Svizzera, Cina e Brasile dove la legislazione incredibilmente e per fortuna dei lavoratori dei suddetti paesi sono tutelati molto di più che nei paesi della Comunità Europea. Nel mentre, Roche investirà circa 280 milioni di euro nella fabbrica di Kaiseraugst (Svizzera), dove svilupperà e produrrà una nuova generazione di farmaci appoggiandosi sempre su piccole molecole.
L'operazione prenderà avvio nel 2016 e dovrebbe essere ultimata entro il 2021.
I costi della ristrutturazione sono valutati in circa 1.500 milioni di euro.
L’azionista è sempre più teso alla massimizzazione dei suoi profitti; Roche non è estranea a questo modo di fare impresa. Con grande rapidità, si è trasformata dal classico ruolo “paternalistico” (insieme di complessi rapporti sociali tra proprietari, dirigenti, dipendenti, fornitori, comunità locali) a una concezione contrattualistica, come si dimostra con la decisione della messa in vendita.
La continua richiesta della flessibilità del capitale internazionale, sempre più in competizione al raggiungimento di rendimenti maggiori, ha determinato una concezione di fare impresa orientata alla finanza e non alla produzione.
Per cui se una determinata parte contraente non soddisfa più certe esigenze di rendimento, quel contratto può essere eliminato e sostituito con un altro.
Questo vuol dire che le imprese non hanno più alcun interesse ad essere localizzate in un determinato luogo, città o nazione. La componente finanziaria diventa predominante anche nell’organizzazione della produzione, perché ciò che conta è il rendimento collegato al contratto.
La mobilità del capitale finanziario comporta flessibilità del lavoro: se il rendimento di un impianto o di un insieme di servizi, o di una unità produttiva, che di per sé può anche andare bene, ma sembra rendere meno in termini comparati rispetto ad un’altra che opera nello stesso paese o altrove nel mondo, quell’unità viene semplicemente venduta o chiusa, i lavoratori licenziati, dismessi, spinti al prepensionamento.
Queste operazioni non sono mai indolori per i lavoratori e per questo la CUB propone di mobilitarsi per difendere l’occupazione e i diritti acquisiti.

ALLCA CUB, Novembre 2015

sabato 21 novembre 2015

25 novembre: giornata internazionale contro la violenza sulle donne

La violenza è un fenomeno ampio e diffuso e la violenza sulle donne si manifesta in molteplici modi, fisici e psicologici. Violenza fisica non è solo subire percosse fisiche o rimanerne uccisa: episodi che, purtroppo, sono all’ordine del giorno. La violenza fisica su una donna si manifesta anche quando la donna è costretta a stare richiusa in casa o subire altre forme di sequestro, quando viene scossa o riceve spintoni da maschi perché più forti di lei.
Violenza psicologica è quando la donna deve incassare liti familiari, sopportare il rifiuto di un aiuto domestico o educativo nella crescita dei figli, subire pedinamenti, minacce o domande assillanti da parte di mariti gelosi, padri, fratelli. Di conseguenza, non può far altro che trascorrere le proprie giornate in un silenzio pieno di rancore chiusa tra le mura domestiche perché unica fonte di estraniamento da ogni male.
La violenza economica, rappresentata da un continuo controllo del salario a piacimento del padrone, dall’impedimento di proseguire il lavoro in presenza di gravidanze o figli a cui badare quotidianamente. Senza tralasciare la violenza che accade tutti i giorni nei luoghi di lavoro, dove le donne, oltre allo sfruttamento cui sono sottoposte insieme ai loro compagni maschi, sono costrette a subire una doppia oppressione, legata alla classe e al genere.
Violenza sessuale, come molestie sessuali verbali e rapporti imposti a cui sono affiancate, il più delle volte, percosse sui minori (non sono ignoti i casi in cui i figli delle donne violentate assistano direttamente alla violenza sulla propria madre, ne vedano i segni sul suo corpo, sentano le grida e i pianti).
Le donne di tutti i Paesi tentano di difendersi e innumerevoli sono i coraggiosi casi di organizzazione, coraggio e ribellione a questo stato di cose di cui le donne danno esempio. Ricordiamo qui, ad esempio dei tanti, solo alcune fra le numerose lotte delle donne:
- La vittoria delle tre lavoratrici del Brico dell’Aquila, che nel giugno 2015 hanno potuto annunciare il loro reintegro dopo il licenziamento avvenuto un anno prima da parte dell’Aleandri Bricolage.
- La vittoria di Mariana, la ragazza rumena brutalmente aggredita e seviziata a Vicenza quando era al sesto mese di gravidanza da due paracadutisti dell'esercito degli USA, nel luglio 2014. Per Mariana, a fianco della difesa legale, si è attivata una mobilitazione di solidarietà partita soprattutto dal Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute di Pordenone e dalle Donne in lotta di No Austerity Vicenza, riuscendo ad impedire che scendesse il silenzio su questo grave caso purtroppo non isolato. Mariana lo scorso settembre è stata risarcita per danno biologico dall'esercito statunitense con una prima tranche di €100.000,00.
- La lotta delle lavoratrici delle cooperative Mr. Jobs e Geodis, in appalto alla multinazionale Yoox, che hanno organizzato uno sciopero prolungato con picchetto permanente all'interporto di Bologna per protestare contro il licenziamento di alcune lavoratrici, tra cui attiviste sindacali, punite dall'azienda per le loro lotte contro il maschilismo e gli abusi sessuali sul luogo di lavoro e contro pesanti condizioni salariali e lavorative.
- La battaglia vittoriosa di Máxima, ragazza indigena di Conga, villaggio delle Ande peruviane a oltre 4mila metri d’altezza, che non ha avuto paura di organizzare la difesa per la sua comunità e la terra dalle mire di Yanacocha, la più grande multinazionale dell’oro, di proprietà della società statunitense Newman.

E’ necessario continuare nelle lotte, anche contro i contenuti del Family Day dello scorso 20 giugno a Roma, in difesa della sola famiglia tradizionale; contro il tentativo di personaggi come Kiko Arguello, iniziatore e leader del movimento neocatecumenale, che in quell’occasione, davanti a miglia di persone e ripreso dai media nazionali, ha affermato che molti femminicidi sarebbero legittimi per mancato amore da parte della donna! E’ necessario lottare contro la “la teoria del delitto giustificato”, frutto del maschilismo su cui si fonda questo sistema. Contro la doppia oppressione, di classe e di genere, facciamo appello ad organizzare la più ampia solidarietà!

No Austerity



donneinlottanoausterity@gmail.com

Lettera di un operaio della Fiat di Melfi ( dal sito operaicontro .it )

Pubblichiamo questa lettera di un operaio della FIAT  di Melfi che descrive la condizione cui sono sottoposti gli operai moderni alla catena di montaggio.
Ne viene fuori la realtà di come i padroni riducono gli operai ad una mera appendice vivente della macchina.
L’operaio vede la macchina come attrezzo necessario, e nell’alienazione arriva sino  a ringraziare la stessa macchina, che esistendo gli permette di portare a casa il salario per riprodursi. Questo essere umano è costretto a subire la gerarchia aziendale, a cui è obbligato rivolgersi, quasi fosse una supplica, per poter svolgere una necessità del tutto naturale, come quella di un bisogno  fisiologico. Una violenza inaudita che viene giustificata dalla produzione e dalla necessità di lavorare.
L’umiliazione di chiedere ad un superiore di poter abbandonare la catena che gli stringe il piede per poter andare al cesso. Nella società esterna sarebbe un atto inaudito di prevaricazione, in fabbrica quello che all’esterno fa inorridire, diventa una quotidianità . Finché dura. Finché l’operaio della FIAT di Melfi si chiederà: ma è proprio necessario essere schiavi per poter vivere?

Da quel momento in poi scoprirà il padrone, i suoi profitti e la necessità di liberarsene.


La lettera:

Oggi potere dire lavoro è importante, il lavoro sappiamo tutti che nobilita l’uomo, ma è anche importante per poter sopravvivere, si oggi si sopravvive.
Avere un lavoro fa stare bene con se stessi, ci si realizza, si vive in un modo umano.
Lavoro presso una fabbrica e non me ne vergogno, certo si fanno dei turni tra cui le notti e non è semplice, ma piano piano ci si abitua perché è importante.
Penso che qualsiasi lavoro si faccia ci si imbatte nei pro e contro, certo in fabbrica è più difficile, si sta sette ore e mezza in piedi, su di fronte ad una macchina, ad una macchina che devi dirle grazie che mi fa lavorare, che a volte non si ferma mai e tu persona devi stargli dietro, non puoi stancarti mai.

Hai pochi minuti a tua disposizioni per poterti fermare, magari sederti per poter riprendere e ricominciare, chiedere con umiltà di andare in bagno, che questo fa un po’ male in fondo è un bisogno necessario, ma si sopporta, ci si dice non fa niente e si va avanti.
Forse se si potesse fare a meno dei rumori che sono tanti e si potesse avere un po’ più contatti umani, significherebbe lavorare umanamente.
Si è coscienti e consapevoli che il lavoro deve essere fatto in quel modo ma non con il timore di essere cacciati fuori da un momento all’altro.
Oggi avere delle certezze significa vivere.

Un operaio interinale della Fiat di Melfi

giovedì 19 novembre 2015

La lettera che Tiziano Terzani scrisse a Oriana Fallaci in risposta a "La rabbia e l'orgoglio"

Firenze, 7 ottobre 2001




di Tiziano Terzani


Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia' grande e tu proponesti di scambiarci delle "Lettere da due mondi diversi": io dalla Cina dell'immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall'America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma e' in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l'impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La' morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all'indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui uso' di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell'umanita', un'opera che sembra essere ancora di un'inquietante attualita'.
Pensare quel che pensi e scriverlo e' un tuo diritto. Il problema e' pero' che, grazie alla tua notorieta', la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.
Il nostro di ora e' un momento di straordinaria importanza. L'orrore indicibile e' appena cominciato, ma e' ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilita' perche' certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu' bassi, ad aizzare la bestia dell'odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecita' delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l'uccidere. "Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu' difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella bell'anima di Gandhi. Ed aggiungeva: "Finche' l'uomo non si mettera' di sua volonta' all'ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara' per lui alcuna salvezza".
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non e' nella tua rabbia accalorata, ne' nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu' accettabile, "Liberta' duratura".
O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo e' mondo non c'e' stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sara' nemmeno questa.
Quel che ci sta succedendo e' nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti prima dell'11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita' di nulla, tanto meno all'inevitabilita' della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre piu' tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor piu' determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor piu' terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguira' necessariamente una loro ancora piu' orribile e poi un'altra nostra e cosi' via.
Perche' non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari "intelligente", di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.
Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d'impegnarsi solennemente con tutta l'umanita' a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilita'. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per se' un'arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l'orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L'arte di non essere governati: l'etica politica da Socrate a Mozart). L'autore e' Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all'Universita' di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff e' che la politica, nella sua espressione piu' nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici piu' profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all'uomo la necessita' di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civilta'.
Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che e' anche una protezione -, lo condanna all'esilio dove quello fonda la prima citta'. La vendetta non e' degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell'uomo occidentale perche' col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro e' servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilita' della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi', attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle "Tigri Tamil", votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di "Hamas" che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pieta' sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull'isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l'Imperatore. I kamikaze mi interessano perche' vorrei capire che cosa li rende cosi' disposti a quell'innaturale atto che e' il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.
Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l'ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio.
Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche' io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera' uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana e' semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c'e' raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, e' il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell'evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L'attacco alle Torri Gemelle e' uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non e' l'atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non e' neppure "un attacco alla liberta' ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell'Universita' di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da' di questa storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi dell'11 settembre non hanno attaccato l'America: hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l'ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l'anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l'elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il "contraccolpo" dell'attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico".
Cosi' si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.
Esatta o meno che sia l'analisi di Chalmers Johnson, e' evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c'e', a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e' stata la trappola.
L'occasione per uscirne e' ora.
Perche' non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche' non studiamo davvero, come avremmo potuto gia' fare da una ventina d'anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?
Ci eviteremmo cosi' d'essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu' disastrosi "contraccolpi" che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta.
Magari salviamo cosi' anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa e' stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e' legato al fatto d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l'India e da li' nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli "orribili" talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si e' impegnata col Turkmenistan a costruire quell'oleodotto attraverso l'Afghanistan.
E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita' di proteggere la liberta' e la democrazia, l'imminente attacco contro l'Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell'America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria petrolifera con quelli dell'industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all'interno del paese, in ragione dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta' che rendono l'America cosi' particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l'aggettivo "codardi", usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi' come la censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L'aver diviso il mondo in maniera - mi pare - "talebana", fra "quelli che stanno con noi e quelli contro di noi", crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l'America ha gia' sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle "cicale" ed agli intellettuali "del dubbio" va in quello stesso senso. Dubitare e' una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e' il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e' come volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e dell'establishment mediatico, c'e' stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l'America ci mettesse gia' paura. Capita cosi' di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan e' un importante simbolo di quell'America che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto - e' un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor piu' l'angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civilta' combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente.
Ma questo ci impone anche grandi responsabilita' come quella, non facile, di andare dietro alla verita' e di dedicarci soprattutto "a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia", come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e' complicato. Ma non si puo' esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita' di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.
Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa e' l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l'arabo, oltre ai tanti che gia' studiano l'inglese e magari il giapponese?
Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente e', come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le opere di artisti e letterati hanno vita piu' lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno piu' in la' degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di piu' di tutti gli altri messi assieme".
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per "gli altri", per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo' una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufrago' e lui si salvo' a malapena. Ci provo' una seconda volta, ma si ammalo' prima di arrivare e torno' indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l'assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il peccato"), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraverso' le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c'era ancora la Cnn - era il 1219 - perche' sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell'incontro. Certo fu particolarissimo perche', dopo una chiacchierata che probabilmente ando' avanti nella notte, al mattino il Sultano lascio' che San Francesco tornasse, incolume, all'accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l'uno disse all'altro le sue ragioni, che San Francesco parlo' di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d'accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressivita' e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.
Ma oggi? Non fermarla puo' voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all'orrore dell'olocausto atomico pose una bella domanda: "La sindrome da fine del mondo, l'alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l'uomo piu' umano?". A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere "No".
Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
"Mi dica, che cosa spinge l'uomo alla guerra?", chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. "E possibile dirigere l'evoluzione psichica dell'uomo in modo che egli diventi piu' capace di resistere alla psicosi dell'odio e della distruzione?" Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c'era da sperare: l'influsso di due fattori - un atteggiamento piu' civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmio' a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
Non li risparmio' invece ad Einstein, che divenne pero' sempre piu' convinto della necessita' del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all'umanita' un ultimo appello per la sua sopravvivenza:
"Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto".
Per difendersi, Oriana, non c'e' bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c'e' bisogno d'ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni.
M'e' sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha gia' i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell'acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della liberta' di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita' commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?
"Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate", scrive in questi giorni dall'India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell'esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si'.
L'immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del "nemico" da abbattere e' il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; e' l'ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; e' il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo pero' accettare che per altri il "terrorista" possa essere l'uomo d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui e' piu' conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu' i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?
Questo non e' relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, puo' esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara' difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell'essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.
Molto meno convinti pero' sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio e' diffuso cosi' come e' diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.
"Dateci qualcosa di piu' carino del capitalismo", diceva il cartello di un dimostrante in Germania.
"Un mondo giusto non e' mai NATO", c'era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia'. Un mondo "piu' giusto" e' forse quel che noi tutti, ora piu' che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalita' ed ispirato ad un po' piu' di moralita'.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perche' ora tornano comodi, e' solo l'ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalita' internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese piu' reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato ne' il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, ne' il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L'interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l'utilita' del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara' presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i "lavoretti sporchi" di liquidare qua e la' nel mondo le persone che la Cia stessa mettera' sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovra' ricongiungersi con l'etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa citta' mi fa male e mi intristisce. Tutto e' cambiato, tutto e' involgarito. Ma la colpa non e' dell'Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta' bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era piu' piccola e piu' povera. Ora e' un obbrobrio, ma non perche' i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche' i filippini si riuniscono il giovedi' in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione.
E cosi' perche' anche Firenze s'e' "globalizzata", perche' non ha resistito all'assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso e' scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch'io non mi ci ritrovo piu'.
Per questo sto, anch'io ritirato, in una sorta di baita nell'Himalaya indiana dinanzi alle piu' divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, li' maestose ed immobili, simbolo della piu' grande stabilita', eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.
La natura e' una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu' grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu'. Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passera' anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.

Perche' se quella non e' dentro di noi non sara' mai da nessuna parte.

domenica 15 novembre 2015

L'ABBRACCIO DELLA BESTIA - Lo spettacolo teatrale

Roche cede i galenici, a rischio 400 posti a Segrate

Oltre al sito di Segrate, Roche ha deciso di cedere anche le strutture di Clarecastle (Irlanda), Leganes (Spagna) e Florence (USA)

La casa farmaceutica svizzera Roche ha annunciato, nella serata di giovedì, la cessione della produzione chimica, cioè dei galenici: lo ha reso noto la Allca-Cub sottolineando che "in Italia 400 posti di lavoro potrebbero essere a rischio nello stabilimento di Segrate (Milano) perché a meno che la fabbrica non venga venduta entro il 2021 sarà chiusa e comunque la cessione potrebbe non essere indolore". La Roche esternalizzerà in tutto quattro fabbriche nel mondo - spiega il sindacato di base - fra cui oltre il nostro Paese sono interessate anche Irlanda, Spagna e Stati Uniti. "Questi farmaci non sono più nel core business dell'azienda ormai orientata verso i farmaci biologici e ad alta tecnologia - ha sottolineato Giovanni Cippo, segretario generale Allca-Cub -. I galenici saranno prodotti solo a Basilea e in Brasile dove la legislazione incredibilmente e per fortuna tutela molto di più i lavoratori che in Europa. Il sindacato si mobiliterà per tutelare i lavoratori e i loro diritti".
Roche conferma, in una nota, un piano di cessione per il sito produttivo di Segrate. "Questa decisione - si legge nel comunicato - si è resa necessaria nell'ambito della revisione, annunciata a livello globale, della rete produttiva dei farmaci small molecules, come conseguenza dell'evoluzione del proprio portfolio, basato su farmaci per terapie mirate, prodotti in volumi minori". "E' stata una decisione a livello globale certamente difficile, che in Italia ci lascia amarezza considerando l'impegno profuso, le risorse investite e il lavoro svolto in oltre 15 anni presso il nostro sito di Segrate - commenta Maurizio de Cicco, presidente e amministratore delegato Roche S.p.A. -. Intendiamo affrontare questa transizione in modo trasparente e responsabile". Oltre al sito di Segrate, Roche ha deciso di cedere anche le strutture di Clarecastle (Irlanda), Leganes (Spagna) e Florence (USA) ed è attivamente alla ricerca di potenziali acquirenti per tutte le strutture. Questa decisione "non avrà alcun impatto sulla struttura amministrativa e commerciale di Roche S.p.A., che oggi conta oltre 600 persone nella sede di Monza e sul territorio".


fonte: ansa

venerdì 13 novembre 2015

LA CUB DI MODENA ESPRIME SOLIDARIETA' A SABINA PICCININI.


NO ALL'INVALSI! NO AI PRESIDI SCERIFFI! NO ALLA PERSECUZIONE DEGLI INSEGNANTI!

Comunicato della Cub di Modena

Finalmente, dopo tre anni di attesa, martedì prossimo 17 Novembre alle ore nove presso il Tribunale di Modena- sezione Lavoro in Corso Canalgrande 60, dovrebbe arrivare la sentenza del “processo all’Invalsi”. Una docente della Provincia di Modena, Sabina Piccinini (sostenuta dalla Flc-Cgil) ricorrerà contro il Ministero dell’Istruzione ed i suoi “test a crocette”. Una scelta coraggiosa, pagata con fior di sanzioni e sospensioni, al punto da far temere per la collega ricorrente addirittura il licenziamento. Eppure la docente ha voluto semplicemente seguire sino in fondo e con coerenza la posizione del proprio sindacato, somministrando i test per poi ricorrere contro l’obbligatorietà degli stessi.

Il ricorso contro le prove invalsi rappresenta un appello forte alla libertà di insegnamento, mai così in discussione come in questi tempi di “Buona Scuola”. La scelta e la correzione dei compiti in classe è infatti una delle più alte espressioni della libertà d’insegnamento e della discrezionalità della quale è investito ogni docente che deve poter operare nel rispetto dei ritmi di apprendimento e della personalità di ogni singolo ragazzo. 

Il sindacato CUB di Modena esprime la solidarietà a Sabina Piccini, fa appello a tutti i sindacati a sostenere questa battaglia contro l'invalsi, che ha aperto la strada all'istituzione del preside-sceriffo, prevista dalla cosiddetta "Buona Scuola". In realtà, la scuola di Renzi e della Giannini è una pessima scuola, e per questo la CUB ha aderito allo sciopero del sindacalismo di base di venerdì 13 novembre. 

CUB MODENA

info: cubmodena@tiscali.it

mercoledì 11 novembre 2015

Pirelli allunga la lista delle imprese che lasciano l'Italia

ARTICOLO DI GIULIANO BALESTRERI e RAFFAELE RICCIARDI ( REPUBBLICA.IT ) 


La Bicocca dice addio a Piazza Affari che, sempre meno attraente, quest'anno ha già incassato l'uscita dell'ex Lottomatica volata a Wall Street. Il Paese si conferma terra di conquista: dalle telecomunicazioni all'alimentare, dalla moda alla siderurgia

MILANO - Pirelli è solo l'ultimo anello di una catena senza fine. Quella che lega le aziende simbolo nel made in Italy che lentamente stanno lasciando il Paese preda di investitori internazionale. D'altra parte il trend è chiaro: nel 2014 gli Ide (Investimenti diretti esteri) in entrata in Italia ammontavano a 281,3 miliardi di euro con una crescita del 3,5% rispetto all'anno precendente. Nessun altro ha fatto meglio. Peccato che come osservano gli analisti si tratta soprattutto di shopping internazionale: di aziende o fondi che comprano società italiane. Operazioni a 360 gradi che coinvolgono ogni settore industriale: dalla moda all'alimentare, dalle tlc all'energia fino all'industria pesante.


La Pirelli, diventata cinese, oggi dice addio a Piazza Affari: è solo l'ultimo caso a dimostrazione di una generale disaffezione delle società nei confronti del listino milanese. Ferrari ha scelto Wall Street per il suo collocamento, mentre Prada ha preferito Hong Kong e lo scorso due aprile Gtech, l'ex Lottomatica, ha traslocato da Milano a New York. Dal punto di vista industriale, quest'anno l'Italia è già stata terra di conquista sul fronte delle telecomunicazioni: il controllo di Telecom è passato dagli spagnoli di Telefonica ai francesi di Vivendi, mentre in questi giorni l'imprenditore transalpino Xavier Niel ha annunciato di avere azioni e derivati per un altro 15% del capitale. Del resto delle tlc italiane non resta più nulla: Vodafone ha rilevato l'ex Omnitel, passata prima tedesca poi inglese; Wind dal 2005 è uscita dal perimetro dell'Enel per passare al magnate egiziano Naguib Sawiris e poi ai russi di Vimpelcom nel 2011 (poche settimane fa è stato raggiunto l'accordo per la fusione con 3 Italia del gruppo H3g).

Ma sotto il controllo straniero sono finite anche altri colossi come Edison, controllata dai francesi di Edf da un decennio, e il gruppo Italcementi della famiglia Pesenti che è stato ceduto ai tedeschi di Heidelberg. La stessa Alitalia dalla privatizzazione a oggi ha cambiato più volte bandiera: l'ultima è quella degli Emirati Arabi attraverso Ethiad. Un anno fa era stata Indesit a salutare l'Italia con la cessione da parte dei Merloni agli americani di Whirlpool. Ducati e la Lamborghini fanno da tempo del gruppo Volkswagen. Insomma mentre l'Italia resta una terra a fortissima attrazione per gli investitori internazionali, il percorso inverso è sempre più complicato e le imprese nostrane capaci di andare a fare shopping all'estero sono sempre meno. L'unico caso di internazionalizzazione recente è Fiat con Chrysler e Cnh, ma che ha comportato il trasferimento delle sedi da Torino ad Amsterdam e Londra.
E se di fronte ad acquisizioni "pesanti" la spiegazione più ricorrente è quella del nanismo, altre "migrazioni" all'estero di marchi trovano una spiegazione solo nella mancanza di una politica industriale inesistente o incapace di supportare le aziende in alcuni momenti difficile come il cambio generazionale e la competizione sempre più agguerrita dovuta alla globalizzazione. Così, al di là della semplice volontà di alcuni imprenditori di far cassa, dalla moda all'alimentare, l'Italia ha assistito  alla cessione di Grom alla multinazionale olanedese Unilever. Lo scorso anno era stata la pasta Garofalo che aveva annunciato l'ingresso nel capitale con una quota del 52% degli spagnoli di Ebro, multinazionale che opera nei settori del riso, della pasta e dei condimenti, quotato alla Borsa di Madrid: un investimento da "appena" 62 milioni di euro che seguiva quello da 18 milioni con cui nel 2013 avevano rilevato il 25% della Riso Scotti di Pavia (la famiglia italiana, però, ha mantenuto la maggioranza con il 75% del capitale). Parmalat è stata acquisita dai francesi di Lactalis. Prima ancora, la stessa sorte era toccata ai Baci Perugina e alla Star. Poi i grandi della moda: Versace è stato l'ultimo dopo Krizia. Loro Piana è passata ai francesi di Lvmh con Bulgari e la pasticceria Cova. Perfino Luca Cordero di Montezemolo, che ambiva a un ruolo di ambasciatore del made in Italy all'estero e a creare un polo del lusso col suo fondo Charme, si è rivelato un imprenditore del mordi e fuggi e ha ceduto Poltona Frau agli americani di Haworth.

I marchi del lusso che hanno detto addio all'Italia.
Rimane solo l'incapacità del Paese di fare sistema, di portare avanti una politica industriale che favorisca la creazione di campioni nazionali e internazionali o di difendere distretti capaci di crescere e competere, ma spesso abbandonati a se stessi. L'Italia resta così condannata al nanismo industriale, nonostante la presenza di eccellenze che il mondo invidia.

Il made in Italy in mano straniera.