Il piano è
sempre lo stesso, qualsiasi sia il settore pubblico da
smantellare. Tagli la spesa, restringi i servizi, aumenti le tariffe,
fai incazzare gli utenti, muovi un po' di giornalisti prezzolati, alimenti una
campagna contro “il pubblico” che incontra resistenze via via più febili (il
servizio funziona sempre meno) e alla fine privatizzi tutto.
Abbiamo
visto i “grandi successi” di Telecom e dell'Alitalia, per non dire dell'Italsider diventata Ilva. Lo stiamo vedendo con la scuola e l'università, fatte marcire tra taglio dei
fondi, maltrattamento del personale e aumento delle rette, parallelo
all'aumento dei fondi regalati alle scuole private.
La
“fase finale” ora tocca alla sanità.
Come si
privatizza la sanità pubblica? All'americana, naturalmente, dandola in mano
alle assicurazioni e alle strutture private. C'è ancora un po' di timore a
presentarla così, quindi si comincia con degli studi, in cui magari un centro
di ricerca serio come il Censis si mette a duettare con un qualcosa che si
chiama Unipol, si comincia a far circolare il mantra che “bisogna superare
certi pregiudizi” (le assicurazioni, in Italia, non godono effettivamente di
grandi simpatie nella popolazione...), ma si comincia anche a disegnare
teoricamente il nuovo assetto possibile di una sanità completamente
privatizzata. A cominciare dal nome, ovviamente in inglese: white economy.
Il rapporto
Censis-Unipol prende atto con soddisfazione che la sanità pubblica è stata
ormai “frollata” a sufficienza e quindi “Appare ormai maturo il tempo di una
nuova integrazione tra pubblico e privato, capace non solo di garantire la
tutela sanitaria e sociale delle persone, ma anche di favorire la crescita
economica, a partire dai territori”.
In fondo gli
utenti sono stati ormai abituati a pagarsi quasi tutte le prestazioni
sanitarie, a cominciare dall'assistenza agli anziani. Dunque non ci sarebbero
troppi ostacoli pratici. Anzi, bisogna anche sbrigarsi perché la crisi ha
ristretto la capacità di spesa delle famiglie in questo settore. Al punto che ci
si cura in generale di meno (nonostante l'aumento dei ticket, infatti, nel 2014
la spesa delle famiglie è scesa del 5,7%) e per la prima volta è in diminuzione
anche il numero delle badanti assunte per assistere gli anziani.
Per il
presidente di Unipol, Pierluigi Stefanini, “Se sapremo superare i pregiudizi
consolidati, il pilastro socio-sanitario, inteso non più solo come un costo,
può divenire una solida filiera economico-produttiva da aggiungere alle grandi
direttrici politiche per il rilancio della crescita nel nostro Paese”. Et
voilà, il gioco è fatto. La salute della popolazione smette di essere un
diritto individuale garantito dallo Stato e diventa una merce “prodotta” da una
“solida filiera economico-produttiva”, con aziende private (cliniche, laboratori
di analisi e diagnostica, ecc) che sostituiscono quasi in tutto la rete
sanitaria pubblica. Cui dovrebbero essere affidate, in misura assolutamente
residuale, tutte quelle prestazioni da cui proprio è impossibile estrarre
profitti privati: pronto soccorso, malattie gravi e/o invalidanti di persone
con redditi troppo bassi, ecc.
Naturalmente
bisogna “comunicare” qualcosa di più attraente e meno volgare. Quindi si
argomenta in modo solidale alle famiglie italiane che “nei lunghi anni della
recessione hanno supplito con le proprie risorse ai tagli del welfare
pubblico”. E anzi ci si presenta come pronti a correre in loro soccorso, perché
“oggi questo peso inizia a diventare insostenibile. Per questo è necessario far
evolvere il mercato informale e spontaneo dei servizi alla persona in una
moderna organizzazione che garantisca prezzi più bassi e migliori prestazioni
utilizzando al meglio le risorse disponibili”.
Sembra la
pubblicità di una catena di supermercati che garantisce “prezzi bassi e fissi”.
E bisognerebbe chiedersi come sia possibile che una “moderna organizzazione”
della sanità in mano ai privati riesca a garantire -in futuro - prezzi più
bassi e migliori prestazioni. L'esperienza comune, infatti, registra l'esatto
opposto: prezzi spaventosi (una clinica privata con una certa affidabilità può
arrivare a chiedere 500 euro al giorno per il solo ricovero, senza ancora
calcolare i costi di visite specialistiche e medicinali, per non dire delle
operazioni chirurgiche), qualche problema con i casi clinicamente più complessi
(specie nella neonatologia, dove non è infrequente che bambini nati in cliche
private vengano trasferiti d'urgenza in ospedali pubblici specializzati, come
il Bambin Gesù di Roma). Poi, certamente, in una clinica privata il “numero chiuso”
- ristretto a chi si può permettere di pagare certe cifre o è coperto da
un'assicurazione (appunto...) - garantisce un rapporto meno frettoloso con
medici e infermieri, meno affollamento e nessun letto nei corridoi. Queste sono
piacevolezze che vengono da sempre assegnate alla sanità pubblica che deve
accogliere e assistere chiunque – meritoriamente – anche se non c'è posto.
Ma ci sono
dettagli decisamente interessanti nel rapporto Censis-Unipol. Per esempio, lo
scorso anno la spesa sanitaria privata è crollata del 5,7%. La riduzione
generalizzata dei redditi, insomma, sta mettendo in crisi i profitti dei
padroni delle cliniche e dei centri diagnostici privati (gli Angelucci e i
Debenedetti, per esempio); quindi è decisamente il “momento” di garantir loro
un solido aumento delle entrate.
L'idea è di
copiare il modello anglosassone, soprattutto statunitense, con qualche
mediazione: “un’integrazione tra offerta pubblica e strumenti assicurativi (che
permettano di sottoscrivere polizze a costi accessibili per poter godere in
futuro di servizi di assistenza, di cura e di long term care) e di
intermediazione organizzata e professionale di servizi”.
Come farlo
senza consegnare immediatamente e brutalmente la popolazione agli
“intermediatori” sanitari privati? Con una attenta regolamentazione che serva a
“stabilire le modalità precise per attivare tale percorso di integrazione, non
tralasciando che molti fenomeni di cambiamento socio-demografico variano ed
assumono sfumature differenti a seconda dei territori in cui si articola il
Paese. Coinvolgere, pertanto, gli Enti territoriali nella definizione di
processi di integrazione pubblico-privato, ma soprattutto coinvolgerli nella
definizione di strumenti integrativi di welfare può essere una pista di lavoro
per attivare servizi maggiormente rispondenti ad uno scenario in cambiamento.
In questa prospettiva si pongono le proposte, di alcuni operatori privati, in
primis Unipol, di attivare fondi sanitari integrativi di tipo territoriale, con
una forte compartecipazione degli Enti locali”.
Decentramento,
accordi con enti locali inchiodati dal “patto di stabilità” e dunque
impossibilitati ad opporsi validamente alle pressioni dei “privati” in presenza
di una riduzione generalizzata della spesa sanitaria pubblica e quindi alle
montanti proteste della popolazione. La chiave per disarticolare le resistenze
passa da qui.
Il tutto,
ovviamente, per “stimolare la crescita del paese”, sviluppando “filiere”.
Perché “è evidente che la modernizzazione e la crescita della white economy,
non possono passare solo per un investimento pubblico ma, viceversa, dovrebbero
passare attraverso l’attivazione di un’offerta privata di servizi e di
strumenti assicurativi e finanziari privati, di tipo integrativo, coordinati
con l’offerta pubblica e sottoposti, ovviamente, alla vigilanza di organismi
indipendenti competenti per materia”.
Preparatevi
a fare a schiaffi con le assicurazioni. Che, come in America, pretendono di
coprire soltanto i clienti in perfetta salute, scartando tutti quelli che
rischiano di costar loro più di quanto non versino di polizza.
Articolo
di ieri del sito CONTROPIANO.ORG
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