Da Il Fatto
Quotidiano del 02/04/2015.
Jobs Balls
Solo un
pazzo o un campione di malafede può dare a Renzi la colpa dell’ennesimo aumento
dei disoccupati, figlio di decenni di politiche demenziali, talvolta criminali,
sia sul mercato del lavoro e delle pensioni, sia sulle destinazioni della spesa
pubblica. Dalla legge Treu del 1997 alla legge 30 del 2003 (abusivamente
attribuita a Marco Biagi ormai defunto) alla legge Fornero del 2012, ci è
sempre stata spacciata l’equazione “più flessibilità uguale più posti di
lavoro”. Intanto i posti di lavoro scendevano perché c’era sempre meno lavoro
da dare a lavoratori sempre più flessibili, ma sempre più inutili: a causa
dell’incapacità dei cosiddetti manager delle aziende italiane, delle gimkane
burocratico-fiscali, e della crisi globale.
La colpa di
Renzi – l’abbiamo scritto fin dall’inizio – è stata una sola: sbagliare
completamente l’agenda delle priorità del suo governo, facendosela dettare
dalla Confindustria (dai cui diktat copiò il Jobs Act), dalle solite bande
d’affari (dai cui memorandum plagiò le controriforme del Senato, della legge
elettorale e della giustizia) e dalla propaganda elettorale (i cosiddetti “80
euro”, che poi 80 non sono quasi per nessuno, costano 10 miliardi all’anno e
non hanno smosso i consumi di uno zero virgola). Poi ha creato attese
messianiche, promettendo che le mirabolanti “riforme” (parola magica che ha
ormai assunto una vita propria, autodimostrandosi e autoinverandosi a
prescindere dal contenuto delle medesime) avrebbero “fatto ripartire l’Italia”,
portandola “fuori dalla crisi”: investimenti, occupazione, crescita. Come se un
Senato tutto di nominati e una Camera per i 2/3 di nominati, più il taglio
delle ferie ai magistrati e la libertà totale di licenziamento fossero in grado
di aumentare, come per incanto, gli ordinativi alle aziende, e dunque le
assunzioni. Nell’ultima settimana non c’era giorno né giornale né telegiornale
senza almeno un titolo sul “boom dei contratti stabili fra gennaio e febbraio”,
sui “79 mila nuovi posti fissi”, sull’Italia che “riscopre la fiducia”, manco
fossimo nei primi anni 60, con commenti strombettanti di premier, ministri,
sottosegretari e sottopancia sulla “svolta buona” e la “fine della crisi”.
Magari. Intendiamoci, il dato numerico anticipato dal ministro Po-letti
anticipando cifre ancora mai pubblicate, era parzialmente esatto: nei primi due
mesi dell’anno le aziende, incentivate dai contributi statali – 8 mila euro per
ciascun nuovo contratto a tempo indeterminato – hanno stabilizzato un po’ di
precari e assunto un po’ di disoccupati prima che si esaurissero le riserve del
bonus.
Già sapendo
che il nuovo contratto a tempo indeterminato consente loro di arraffare gli 8
mila euro ad assunto e poi di licenziarlo fra un anno senz’articolo 18. Quindi
i nuovi contratti “stabili” sono spesso ancor più precari di quelli
ufficialmente precari. Ma soprattutto il dato di 79 mila contratti
finto-stabili fra gennaio e febbraio (che poi si sono scoperti essere 45.703,
in gran parte ex contratti precari stabilizzati, non nuovi posti di lavoro),
mancava del suo naturale contraltare: quello dei lavoratori che, nello stesso
bimestre, hanno perso il lavoro. I giornaloni e i tg dell’ottimismo
obbligatorio si erano scordati giusto questo piccolo dettaglio: per vedere se
l’occupazione cresce o cala, devi contare sia chi il lavoro lo trova sia chi lo
perde, e poi fare la somma. Altrimenti è come stimare la popolazione annua
contando solo i nati e scordandosi i morti. L’altroieri l’Istat ha comunicato
che a febbraio l’Italia ha registrato 44 mila occupati in meno (perlopiù donne)
e 23 mila disoccupati in più (+0,7%) rispetto a gennaio. Così il tasso di
disoccupazione sale al 12,7% (+0,2, con un +2,1 di disoccupati) rispetto a un
anno fa, quando nacque il governo Renzi. Da allora, mentre il premier e i
trombettieri annunciavano continuamente centinaia di migliaia di nuovi posti di
lavoro, e i Farinetti e i Velardi andavano in tv a vantare falangi di
neoassunti grazie alle “riforme”, l’Italia ne perdeva altri 67 mila: quasi 6
mila al mese e 200 al giorno. Non è tutta colpa del Jobs Act, che è appena
entrato in vigore. Ma è stato il governo, cioè Renzi visto che parla solo lui,
a spacciare le nuove assunzioni come un effetto prodigioso della sua legge: ora
che arriva il saldo finale negativo, spetterebbe a lui ammettere che è anche
colpa del Jobs Act. Lo farà? C’è da dubitarne, anche perché – a parte Il Fatto,
Il Sole 24 Ore e La Stampa – ci vuole il microscopio elettronico per trovare la
smentita alle cifre sballate di una settimana fa sulle prime pagine dei
giornali “indipendenti”. Il Foglio le maschera sotto un titolo esilarante:
“Calma col disfattismo, ma un Pil così floscio non crea occupazione”: fino
all’altro giorno magnificava gli effetti balsamici del Jobs Act, e ora che si
scopre che è tutto falso, la colpa è del Pil e dei “malintesi governo-Istat”.
Ma sì, dev’esserci stato un piccolo quiproquo. La Stampa, dopo aver
sottolineato imprecisati “segnali incoraggianti e convergenti”, assicura che
“bisogna attendere il boom dei contratti a tempo indeterminato a tutele
crescenti partito il 7 marzo”. Cioè: prima annuncia un boom che non c’è, poi
quando viene smentita annuncia che il boom ci sarà. Repubblica riesce a vedere
nella catastrofe “una lieve tendenza positiva”. Sul Messaggero, in prima
pagina, nemmeno una riga: però ci sono “Mattarella e Napolitano per i 90 anni
della Treccani”, perbacco. Sul Mattino invece c’è un trafiletto in fondo a
sinistra sulla “battuta d’arresto”, ma con ampio spazio al ministro Poletti
che, da fine umorista, regala la supercazzola prematurata: “I dati non
contraddicono i segnali positivi, in coda alla crisi le situazioni tendono a
non essere stabilizzate con una flessione che dopo una fase positiva era
immaginabile”. Lui se l’aspettava, era tutto calcolato. Come fosse antani. Con
fuochi fatui.
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